La nicchia - numero 46 - “Quasi niente”: l’ultimo romanzo di Valentino Ronchi

Dopo Riviera (Fazi, 2021) e diverse fortunate raccolte di poesia, “Quasi niente” è il secondo romanzo di Valentino Ronchi. Un romanzo di ‘inizi’: l’inizio di un amore adolescenziale e di una amicizia, ma anche – e soprattutto ‒ l’inizio di una filosofia. La voce narrante, profetica e dotata di un timbro di ineluttabilità, non ci farà mai conoscere i dettagli della storia, né i fatti che l’hanno preceduta o seguita, e il lettore dovrà contentarsi di quasi niente.

Quasi niente è, in realtà, già molto: è una religione, un modo di stare al mondo, prima ancora che una filosofia tesa a riassumere la cifra dell’esistenza umana.

Da una parte Philippe e Alina, fermano il tempo con un bacio, nella dimensione dell’adolescenza, luminosa e sospesa, esistenziale oltre che anagrafica. Dall’altra un giovane professore di Liceo che, osservandoli, intuisce la Vita ed elabora una filosofia basandosi sulla malinconia di ogni piccola fine, visibile in negativo nell’inizio stesso e nella consapevolezza del tempo che passa.

E chi sarà mai questo professore di liceo che fa da protagonista, pur stando sullo sfondo? Vladimir Jankélévitch.

Anche se non conosciamo Jankélévitch e non siamo esperti di filosofia, leggendo questo libro comprendiamo che possiamo essere poeti e, quindi filosofi, ‘sul campo’. Chiunque, infatti, può sentire la Poesia, farsi folgorare dalle piccole cose quotidiane, risalendo dal particolare al generale, per cogliere l’essenza assoluta, i legami magici e misteriosi dell’esistenza, in virtù di quel meccanismo induttivo tipico del pensare e del vivere poeticamente, la “propensione a interrogare frammenti della realtà al fine di cogliere in essi la cifra della tessitura generale delle cose”.

Pochi sono gli elementi storici: il giovane Jankélevitch che da Parigi si trasferisce a Lione per insegnare al Lycée du Parcc, che suona il pianoforte e che scrive all’amico Louis Beauduc parlando della necessità di iscriversi al Front Commun, viste le nubi che si addensano sull’Europa.

Il resto è - verosimile - invenzione letteraria.

Philippe Rebalin, giovane scanzonato dell’alta borghesia lionese, flâneur mattutino, con quell’“aria di hybris” è un miscuglio equilibrato tra il padre, bello e malinconico, e la madre allegra e seducente (ma per niente frivola). Philippe è“un avventuroso”, un “eterno debuttante”, che ricerca l’accelerazione cardiaca nell’avventura dell’attimo e che coglie il clinamen quando si presenta, distinguendosi così dal mero “avventuriero”.

Alina Babic è bella, ha un sorriso meraviglioso che non regala a tutti. Figlia di emigrati, lavora a servizio in una casa borghese, non frequenta il Liceo. Sarà proprio lei a chiedere, innocente, a Philippe: “tu dai un nome a cose che sentiamo tutti, è vero? É questo che fate al liceo?”.

Questo scambio di battute tra Philippe e Alina è la chiave di volta del romanzo, dove filosofia e poesia si incontrano e quasi si sovrappongono.

Anche il giovane professore, così come Philippe, è un “camminatore del mattino”. Non è un caso che scelgano entrambi il mattino per le loro passeggiate: trattandosi dell’inizio di giornata si tratta di “un momento propizio per il pensiero, e per la Vita” e per addomesticare quell’ansia buona di capire e di vivere, che mette sotto esame ogni cosa.

Philippe è bello, Alina è bella, i genitori dell’uno e dell’altra sono belli: belli e giusti, se non addirittura immersi in una dimensione di immortalità. Quanto alla fine, “i due ragazzi non potevano neanche immaginarla”. E Philippe pensa “per il meglio”, quando il Professore gli chiede se si renda conto di quel che sta succedendo in Europa.

Tutti i personaggi di Ronchi sono belli ‒ l’autore ce lo ripete spesso – tuttavia la vera protagonista è la bellezza della Vita. In secondo piano ma onnipresente la nostalgia: “quel legame stretto, umano, dolce e miserrimo assieme, fra le cose e il tempo, le città, i luoghi e le persone con la loro singolare, irripetibile vicenda”. Un’emozione particolare, sottesa a multiformi e invisibili combinazioni, evocative e significanti solo per chi le vive in un determinato momento. L’unico modo per descriverla, così come la malinconia, è attraverso immagini sfocate, acquarelli. E in questo l’autore ci riesce benissimo. Valentino Ronchi (Milano, 1976), infatti, alterna prosa e poesia, alimentando la prima con lo sguardo tipico del poeta, che mette al centro il non detto.

In tal modo la storia di Philippe, Alina e del professore  racconta il Tempo, l’alternanza delle generazioni, l’avventura della quotidianità, fatta di istanti colti al volo e di altrettanti inizi.

È insomma un pretesto, per celebrare il quasi niente della Vita, il suo andirivieni.

 

Francesca Maria Federici