La nicchia - numero 50 - Le geografie del coraggio: un invito alla lettura della poesia araba

C’è un filo che si stende lontano dalle maglie capienti del grande circuito editoriale. Un filo che tesse con mano viva, resistente, temeraria. Un filo che sa nutrire le ispirazioni più profonde, quelle che affondano lo sguardo nelle realtà più complesse e le affrontano.

Se ci soffermiamo con più attenzione sull’altra sponda del Mediterraneo vediamo questo filo disegnare una sorta di geografia del coraggio: voci dal mondo arabo che osano la parola. E osare – in certi contesti – significa soprattutto rischiare la propria pelle, mettere la propria vita a disposizione di quella collettiva, per liberarla, migliorarla, riscattarla dall’ingiustizia e dalla sopraffazione. Ci accorgiamo che “di fronte” a noi ci sono poeti costantemente impegnati nella difesa della dignità, della libertà, di quei diritti che noi chiamiamo “inalienabili”, dimenticandoci che i valori non sono partoriti naturalmente dall’uomo, ma nascono e vivono con il riconoscimento di tutti.

E allora come non parlare di Ashraf Fayadh, poeta appena quarantenne di origine palestinese, nato e cresciuto nel Regno Saudita. Da pochi mesi è uscito dal carcere dopo aver scontato otto anni di reclusione e 800 frustate con accuse di apostasia per aver “osato” pubblicare la sua raccolta poetica “Le istruzioni sono all’interno”. Ashraf sapeva di rischiare ma conosceva anche la forza della poesia. E ha scelto di restare fedele a questa forza. Così, nel 2019, mentre era ancora in carcere, è uscita la seconda raccolta, “Epicrisi”, pubblicata prima in arabo dalla casa editrice tunisina Diyar e poi in italiano dalla Di Felice Edizioni. Ventisei poesie scritte dalla prigione per denunciare la mano oppressiva della censura e per mostrare le ferite (dell’anima e della pelle) che sanguinano di dolore e orgoglio, nella consapevolezza che il sacrificio sia spesso necessario per l’emancipazione dell’umanità o per lo meno per resistere alle derive dell’ignoranza.

 

Crepe di pelle

 

Il mio paese è passato di qua

calzando la scarpa della libertà...

poi se n’è andato, lasciando la scarpa alle sue spalle,

correva con un ritmo travagliato... come il ritmo del mio

cuore,

il mio cuore che correva verso un’altra direzione... senza

una giustificazione convincente.

La scarpa della libertà era consumata, vecchia e finta

come il resto dei valori umani in tutte le loro dimensioni.

Tutto mi ha abbandonato e se n’è andato... inclusa te.

La scarpa è un’invenzione sconcertante

dimostra la nostra ineleggibilità a vivere su questo pianeta,

dimostra la nostra appartenenza ad un altro luogo in cui

non abbiamo bisogno di camminare molto,

o che il suo pavimento è arredato con ceramica economica... scivolosa!

Il problema non sta nello scivolare... tanto quanto nell’acqua,

nel calore... nel vetro rotto... nelle spine... nei rami secchi e nelle rocce appuntite.

La scarpa non è una soluzione perfetta

ma in qualche modo adempie allo scopo desiderato

esattamente come la ragione

e come la passione.

La mia passione si è estinta da quando te ne sei andata

l’ultima volta,

non posso raggiungerti più

da quando sono stato detenuto in una cassa di cemento

sostenuta da barre fredde di metallo

da quando mi hanno dimenticato tutti... a cominciare

dalla mia libertà... e a finire dalla mia

scarpa affetta da una crisi di identità.

                          (da Epicrisi, Di Felice Edizioni, 2019, traduzione di Sana Darghmouni)

 

A nord-ovest dell’Arabia Saudita, troviamo la Palestina con la dirompenza della parola poetica connessa soprattutto alla terra amata, sognata, personificata a tal punto che sembra respirare con lo stesso ritmo degli uomini: aspra, dolce, selvatica. La storia dell’occupazione, ormai parte integrante del DNA della coscienza collettiva palestinese, il senso di precarietà dei confini, a maggior ragione dal 7 ottobre 2023 in poi, e l’angoscia legata alla perdita si accordano a un canto poetico d’urgenza mentre risuona l’ineluttabilità di un destino che sembra già scritto. Se è vero che tutti i palestinesi sono poeti perché conoscono “la bellezza della natura e la tragedia” (cfr Jabra Ibrahim Jabra), lo è ancor di più per Yousef al-Mahmoud e Murad Sudani, poeti contemporanei che portano il lettore a sondare quella soglia indicibile vita-morte dove tutto ha un’espansione percettiva maggiore, attraverso il legame simbiotico con la natura.    

 

I mandorli ci hanno gridato: oh, fratelli!

(di Yousef al-Mahmoud)

 

Abbiamo pescato per lei le nuvole,

abbiamo ucciso il mare sotto i suoi piedi

e lavato la terra, i sassi, la sabbia

e gli alberi con il suo sangue blu.

Per lei abbiamo trascinato le montagne dalle corna.

Per lei abbiamo scritto poesie

e salmi

e inni

li abbiamo cantati mentre correvamo

tra il fieno e la paglia

nelle notti di luna piena.

Il nostro affanno riempiva la valle.

Gli uccelli e gli animali avevano pietà di noi

si intenerivano per noi gli alberi secchi

la rugiada era nostra amica

e i mandorli ci hanno gridato:

oh, fratelli...

e i pini:

quanto ci somigliate!

...

Gemeva il vento sulla corona delle alte rocce

quando narravamo agli esseri viventi

la nostra diaspora nelle terre di Dio...

...

Quanto ci siamo stancati...!

Quanto ci siamo stancati...!

Guidaci, fiore, verso di lei...

Guidaci, aquila,

re altissimo.

Ha ingobbito le nostre schiene

le ha piegate come i pugnali dei beduini

un giorno abbiamo imparato a memoria per lei le canzoni

da Najwa Karam

ai Gipsy King.

Le abbiamo chiesto: cosa vuoi?

Ci ha risposto: riempitemi le tasche di stelle.

 

                          (da Sulla cima di un garofano, Di Felice Edizioni, 2017, traduzione di Odeh Amarneh)

 

 

Solitudine

(di Murad Sudani)

 

Aprirò questo mattino nonostante sia buio,

appesantito da canti sgozzati

e dalla rivelazione.

L’aprirò come lo scorrere degli schiamazzi strozzati

che si calmano sulle note dei lettori del Corano.

L’aprirò:

freddamente,

lamentandomi

e in solitudine,

nonostante il suo ritmo d’acciaio

e i suoi sogni disperati.

Aprirò il mio cuore straziato dalla tristezza

del narciso selvatico.

Lo spargerò per le vergini, come una stella straniera.

Aprirò la porta dell’alba piangente.

oh, mio Dio.

Mi chiameranno i patroni martiri

e quelli che se ne sono andati senza cuore,

verso un nulla

fatto di seta ardente.

Aprirò i miei occhi sui miei passi nelle colline del mio paese

sugli alberelli di mandorle incoronati da un dannato bianco.

Che profumo!

 

            (da I segni del Narciso e i desideri, Di Felice Edizioni, 2017, traduzione di Odeh Amarneh)

 

Più a nord incontriamo la Siria, con Nazìh Abu ‘Afash il quale, nella raccolta Armi nere, rende la parola poetica antidoto contro la paura e il veleno del sopruso e dell’ingiustizia, il “piombo che ci insegna il valore del canto”. Dalla parte di chi soffre, dei più fragili e degli emarginati, la sua ispirazione è un grido che denuncia e riscatta la condizione umana. La parola è un’arma bianca che difende l’autenticità della condizione umana, in un sistema che sembra soffocarla. Efficace l’immagine del poeta che “lancia nel buio i suoi uccellini / quali fossero disperate invocazioni / raccattate da bimbi da innamorati / da marinai erranti nel cupo oceano”, impastando “polvere lamenti struggimenti del cuore per comporre la parola: Uomo”, per poi morire come meteore.

 

Pilastri

 

I cieli son sostenuti dai loro misteri

Le fedi dalla paura dei loro guerrieri

Le tombe dai loro morti

Le fortezze dalle loro mura e dai catenacci

Le patrie dalle loro galere e dalla ragione dei loro boia

...

L’amore dalla sua debolezza

E l’uomo

dalla bellezza dei suoi errori

e dal coraggio dei suoi sogni.

 

            (da Armi nere, Di Felice Edizioni, 2012, traduzione di Eros Baldissera)

 

Spostiamoci ora in Egitto con Emad Abd el-Mohsen e la raccolta La venditrice di gelsomini: ci immergiamo in una dimensione emotiva e in una riflessiva, entrambe legate al dramma collettivo della rivoluzione del 2011 e agli accadimenti di piazza El Tahrir del Cairo. Nella sua testimonianza di poesia civile, la raccolta rappresenta la fragilità e lo strazio dell’uomo di fronte alla violenza scaturita dal desiderio esasperato di rinnovamento politico e sociale contro il trentennale regime di Mubarak. Questi versi sono stati scritti a distanza di due anni dalla rivoluzione. La parola poetica si fonde con il ricordo e ridà voce alle vittime e ai luoghi del martirio, rendendo la poesia rappresentazione stessa delle istanze universali degli oppressi, degli innocenti, degli emarginati.

 

Il mio cuore non riesce a superare gli ostacoli.

La mia anima è ancora imprigionata in un vecchio ramo.

Come faccio a decidere

di eliminare i numeri dei miei morti dal telefono,

o a far passare i loro assassini da casa mia

... attraverso un giornale,

o un piccolo schermo.

L’odore dell’oppressione si affaccia dal mio telefono

il sangue lo circonda.

L’oppressione è peggio dell’uccisione.

 

              (da La venditrice di gelsomini, Di Felice Edizioni, 2017, traduzione di Naglaa Waly)

 

Più a ovest ecco la Libia, dove si avverte la quasi-assenza o timida presenza della poesia femminile, con Samira Albouzedi e la raccolta Dalla biografia dei giorni smarriti. Il desiderio di ribellione contro una visione letteraria segnata dal dominio secolare del maschile; la creatività messa al servizio della libertà d’espressione anche corporea; un’anima che sottolinea i propri connotati femminili, sapendo di essere non di parte ma universale nell’unire le istanze di tutto il genere femminile; la parola che scava nel dolore della guerra e dello smarrimento: sono alcuni dei tratti ispirativi del suo mondo poetico.

 

Guerra

 

Dove vado

e la guerra è sulle strade?

Ho raccolto libri e figli

ci siamo seduti tutti bisbigliando atterriti sotto il muro

fino al passaggio del missile successivo

quando la notte ritira i suoi soldati.

Il mare è davanti a noi e mille fratelli nemici combattono dietro

quando la guerra sarà finita, usciremo nelle strade

raccoglieremo le cartucce e ne faremo il surrogato di una casa

raccoglieremo i cadaveri e li butteremo in mare

raccoglieremo le dita amputate per applaudire i nuovi governanti

dove andiamo mentre la guerra ha chiuso ogni porta?

I pensieri sono stanchi del volo deludente

i soldati sono stanchi di contare i morti

ma la morte non si è stancata.

È rimasta sola nelle strade della rovina

a pettinarsi i capelli e a cantare.

 

(da Dalla biografia dei giorni smarriti, Di Felice Edizioni, 2022, traduzione di Sana Darghmouni)

 

Per concludere andiamo in Tunisia, consapevoli che questa piccola mappa vuole essere un invito alla lettura e all’approfondimento e non una pretesa di esaustività. Incontriamo Hadi Danial, nato sulla costa siriana, poeta che ha saputo coniugare attività letteraria e impegno civile. Nel 1973 si è unito alla rivoluzione palestinese a Beirut e si è poi trasferito con la OLP in Tunisia nel 1982, dove ha lavorato come direttore del Segretariato Generale dell’Unione Generale degli Scrittori e Giornalisti Palestinesi prima che l’unione tornasse a Ramallah nel 1995. A Tunisi, da diversi anni dirige la casa editrice Diyar Edition. La sua poesia rispecchia la sua militanza e anche la profonda indagine interiore in un’anima combattiva e resistente che cerca di rendere omaggio alla bellezza della sua terra.

 

 

Scruta l’infanzia figliolo,

non vi è argento in testa

ma cenere rimasta da incendi che mi hanno formato,

anima purificata dalle grida del desiderio

e raccolta dai seni della paternità...

Come se non avessi mai vissuto,

ho seppellito trentuno anni

e non so la distanza tra l’ascia e la testa.

Nella soglia di uno spazio sono nato,

moriamo in una nudità ardua e la voce di mia madre nelle

[mie orecchie:

non tornare...

Ho costruito con un sole una luna per rimanere un’oscurità

[che illumina

e una miniera di rubino;

da una città in cui le pietre si innalzano verso una certa pace

– e i cui figli sanguinano i propri genitori –

ti imploro di non macchiare le dita del tuo palmo

con il pugno di nessun’arma;

stai certo non ho mai lanciato una pallottola in aria:

Beirut era una foresta di armi

e quando mi è stata regalata una pistola, l’ho venduta per

[una scarpa e due camicie...,

Beirut era un macello e io immaginavo una madre per te...

Ti ho chiamato Saif e tu sei un ramo fiorito?

Ti ho donato l’unica eredità,

aspetta un po’ e pensa;

tuo padre ha mutato il suo nome verso il suo opposto!

 

(da La testa dei tanti cappelli, Di Felice Edizioni, 2020, traduzione di Sana Darghmouni)



Valeria Di Felice