VOCI LIBERE - 2 - "siamo noi che cominciamo a vivere nei vostri sguardi"

Popoli della terra,

voi che vi avvolgete come gomitoli di refe

con la forza di astri sconosciuti,

che cucite e disfate nuovamente,

che entrate nella confusione dei linguaggi

come in alveari

per pungere nel miele

e venir punti ‒

 

Popoli della terra,

non distruggete l’universo delle parole,

non tagliate con lame d’odio

la voce nata con il respiro.

 

Popoli della terra,

che nessuno pensi morte quando dice vita

e non sangue quando dice culla ‒

 

Popoli della terra,

lasciate alla fonte le parole

ché loro sole fanno avanzare gli orizzonti

nei veri cieli

e con l’altro lato,

maschera dietro cui sbadiglia la notte,

aiutano le stelle a partorire.

 

Questa e molte altre poesie scrisse Nelly Sachs dall’esilio, per l’esilio, e forse persino contro l’esilio. Bisognava in qualche modo sopravvivere agli stenti che la fuga aveva comportato. Occorreva che lo strettamente umano s’intrecciasse torbido al totalmente e puramente sacro. La poetessa forse sentiva l’intimo bisogno di una ricerca sensibile. Quel che è certo, però, è che la lontananza crea artistica  sofferenza, come raffinata ed elegante dipendenza.

 

Su e giù

nel caldo della stanza

Nel corridoio strepitano i pazzi

con i neri uccelli là fuori

intorno al futuro

Le nostre ferite fanno esplodere il tempo maligno

ma gli orologi vanno lenti ‒

 

Nelly Sachs è nata a Berlino il 10 dicembre 1891. Figlia unica del ricco commerciante ebreo William Sachs, crebbe in ambiente colto, educata, secondo l’uso dell’alta borghesia, da insegnanti privati. Grande ammiratrice dell’opera di Selma Lagerlöf, la Sachs le dedicò un volume. E all’amicizia della scrittrice svedese dovrà più tardi la sua salvezza. Nel 1940 infatti Selma Lagerlöf ottenne per lei il permesso di residenza in Svezia. Così Nelly Sachs, dopo aver sperimentato gli anni della persecuzione hitleriana, già con l’ordine di presentarsi in un Arbeitslager, poté fuggire a Stoccolma con la madre. Furono, i primi anni dell’esilio, anni di inaudite sofferenze materiali e morali al capezzale della madre inferma e in preda ad allucinazioni notturne, anni in cui familiari e amici trovarono la morte nei campi di sterminio. Ma furono anche anni di fervida creazione poetica.

 

Vecchi

Stanno lì,

nelle pieghe di questa stella,

coperti da un brandello di notte,

e attendono Dio.

Una spina gli ha serrato la bocca,

la parola gli si è persa negli occhi

che parlano come fontane

in cui è affondato un cadavere.

Oh, i vecchi,

che portano negli occhi, unico avere,

la loro bruciata discendenza.

 

Fu così che Nelly ‒ dall’esilio, per l’esilio e contro di esso ‒ imparò a conoscere quei motivi della mistica ebraica che costituiscono il riferimento costante di tutta la sua poesia.

Come dire che: occorre andare per imparare un linguaggio; che occorre fuggire senza volgersi indietro, poiché la tradizione è tutta dentro di noi, pronta a sfociare in un tafferuglio di coriacee emozioni. (Giorgio Anelli)

 

Voi che amate,

voi che anelate,

udite, voi, malati di commiato:

siamo noi che cominciamo a vivere nei vostri sguardi,

nelle vostre mani che vanno in cerca nella luce azzurra ‒

siamo noi, che odoriamo di domani.

Già ci aspira il vostro fiato,

ci trae giù nel vostro sonno

nei sogni, che sono il nostro regno

dove la buia nutrice, la notte,

ci fa crescere.

 

Nelly Sachs